La leggenda dell'orso dormiente


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Renis
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Località: Lerwyck, Shetland Islands
MessaggioInviato: Mar 06 Set 2005 11:05 am    Oggetto: La leggenda dell'orso dormiente   

La leggenda dell’orso dormiente
~ Yugi on-na ~
di Jason R. Forbus

Esiste un piccolo villaggio di pastori ai piedi del Monte Otai, la vetta più alta di Kara-Tur. Le stagioni sono inclementi in quella terra. Di inverno il vento è così freddo che nessun fuoco può riscaldarti, mentre l’estate il sole è così rovente che la pietra si spacca.
Aran nacque in questo villaggio. Esiste una leggenda sulla sua nascita: sembra, infatti, che quel giorno non fosse né freddo né caldo. Per la prima volta da quando gli uomini si erano insediati in quella regione inospitale, giunse la primavera. Un’effimera primavera. Fu così che il padre del fanciullo decise di chiamarlo Aran O-denshi, “colui che porta la primavera”, e questa è la sua grande storia.

Sin da piccolo Aran era diverso dagli altri bambini. Odiava condurre al pascolo il gregge. Quei sentieri ripidi e brulli erano il suo incubo e così osservare quelle sciocche, belanti pecore brucare l’erba lo annoiava terribilmente. Appena poteva, il fanciullo abbandonava il suo dovere per correre a giocare nei boschi. Più di una pecora si smarrì per colpa sua, finendo in pasto ai lupi crudeli del Monte Otai. Aran era il disonore della famiglia e il disonore di suo padre, ma non gli importava. Il bosco era un posto troppo divertente per resistere alla tentazione. Volta per volta si inoltrava sempre più oltre, sempre più lontano dai soliti sentieri dei taglialegna.
Finché un giorno, seguendo il corso del torrente, Aran perse la cognizione del tempo e non si rese conto del sole che tramontava oltre la vetta innevata della Montagna. E quando Aran scoprì di essersi perduto, era ormai buio per tornare indietro.
Aveva dodici anni allora, il giorno in cui conobbe il Saggio.

Aran vagò per il bosco alla disperata ricerca di un rifugio dove trascorrere la notte. E proprio quando aveva perso le speranze, i suoi passi lo condussero all’entrata di una caverna. La madre lo aveva spesso avvertito di non entrare mai in quegli antri bui dove, secondo il folklore della sua gente, dimoravano i demoni e gli spiriti. Ma fuori faceva un freddo che si moriva e poi disobbedire era così eccitante… Aran si fece coraggio ed entrò.
All’interno della caverna c’era un piacevole tepore e, a giudicare dalla pulizia con cui era mantenuta, doveva essere abitata. In fondo alla caverna Aran vide risplendere una luce. Era senza dubbio un fuoco. Per un momento Aran valutò la possibilità della fuga: con tutta probabilità gli spiriti non si erano ancora accorti di lui. Poteva andarsene e tornare al villaggio con una storia paurosa da raccontare agli amici! Ma la curiosità la vinse sulla paura, e da quel fanciullo sconsiderato che era Aran si affacciò, piano piano, per guardare.
Dentro, disteso pigramente su un soffice giaciglio di foglie secche, vide un orso davvero grosso. Quando l’orso russava la pancia gli si gonfiava fin quasi a toccare il soffitto. Ma gli occhi del fanciullo notarono anche qualcos’altro: accanto all’orso c’erano dei barattoli traboccanti di miele. Una vera leccornia. Aran non mangiava da quella mattina e il suo stomaco era in preda ai lancinanti morsi della fame. Sarebbe scappato, d’accordo, ma non prima di aver preso uno di quei barattoli. Così si avvicinò il più silenziosamente possibile, attento a non fare il minimo rumore, ma proprio quando aveva abbracciato un barattolo, l’orso spalancò improvvisamente gli occhi. Aran non ebbe nemmeno il tempo di urlare che l’animale lo atterrò con una poderosa zampata.
«Non mangiarmi! Non mangiarmi!» Implorò il fanciullo, nell’infantile speranza che l’orso riuscisse a capirlo.
«Mangiare un ladruncolo come te mi causerebbe solo una tremenda indigestione!» Rispose l’orso arrabbiato.
«Cosa?! Ma tu parli!» Aran non poteva credere alle sue orecchie. Quel grosso orso gli aveva parlato!
«Sicuro che parlo. E adesso vattene dalla mia caverna prima che mi arrabbi sul serio. Disturbare il sonno di un orso in questo modo. Bah!»
«Ma fuori fa’ freddo, ed io mi sono perduto… lasciami trascorrere qui la notte.»
L’orso sbuffò. Era evidentemente seccato dalla presenza del ragazzino, che considerava un imprevisto.
«E sia. Ma solo se prometti di non toccare il miele.»
«Prometto!»
Questa fu la prima promessa che Aran rispettò nella sua vita. Il fanciullo scoprì che mantenere una promessa lasciava una sensazione piacevole, migliore anche del miele.
Aran si distese vicinissimo al fuoco, nella speranza che il calore della fiamma lo riscaldasse, ma presto il falò si spense e il fanciullo rimase inerme al gelo notturno. Stava per morire congelato quando sentì una calda pelliccia avvilupparlo: era l’orso. Il bestione lo strinse a sé e in questo modo gli salvò la vita.

Il mattino dopo l’orso offrì ad Aran un po’ di miele e insieme fecero colazione. Era più buono di quanto Aran avesse immaginato.
«Se gli dei venissero a conoscenza del tuo miele, te lo porterebbero subito via.»
«Secondo te perché vivo in questa caverna sperduta nel bosco?»
«Davvero??»
«Certo. Adoro vivere in pace.»
«Come ti chiami, orso?»
«Non è saggio rivelare il proprio nome a uno sconosciuto, anche se piccolo e all’apparenza indifeso. Il nome è molto importante. Ti dice chi sei e il ruolo che hai nel mondo.»
«Beh, io sono “Colui Che Porta La Primavera”. E ti ringrazio umilmente per avermi ospitato in un momento di difficoltà.» Disse il piccolo con un inchino.
Dopo che ebbero finito di mangiare, l’orso si offrì di accompagnare Aran fino ai margini del bosco.
«Con il tuo senso dell’orientamento ti perderesti di sicuro!»
Durante il tragitto, l’orso parlò ad Aran di molte cose. Sembrava conoscere ogni creature del bosco, ogni pianta e ogni sasso. Il fiume straripante di parole sommerse il fanciullo finché giunsero a destinazione.
«*Sniff!* *Sniff!* Sento odore di uomo. Siamo arrivati.»
«Posso venire a trovarti?»
«Certo che puoi! Ma la prossima volta non venire con le mani vuote. Porta un po’ di marmellata e del latte.»
«Te lo prometto! A presto!»
L’orso alzò il capo in segno di saluto e poi si allontanò con passo lento e sicuro finché la sua massiccia figura svanì inghiottita dalle profondità del bosco.

Aran corse a casa, dove lo attendeva un duro rimprovero. Il padre era fuori di sé dalla rabbia.
«Hai fatto scappare un’altra pecora! Vergognati! Sono stanco del tuo carattere ribelle. Ti stai dimostrando indegno del nome che porti! Non so neanche dove hai trascorso la notte…»
«Ho dormito nel bosco. Un orso gentile mi ha ospitato e…»
«Quali sciocchezze vai dicendo?»
«Ma è la verità!»
«Marito, non ricordate le parole della Sacerdotessa? Ci aveva assicurato che nostro figlio è speciale. Lui è Colui che Porta la Primavera…»
Uno strano silenzio calò sulla famiglia. La madre, di solito così rispettosa, si era intromessa nella conversazione senza essere interpellata.
«Non osare interrompermi, Ukio!»
La donna impallidì e prostrandosi in un inchino così rimase, silente.
«So io cosa gli serve. E come un giovane albero ha bisogno di un sostegno, così lui ha bisogno di disciplina. Ragazzo, domani all’alba partirai per il monastero.»
«Perdono, perdono! Non mandatemi al monastero!»
«Così ho deciso.»
Il padre di Aran era un uomo buono, ma severo e legato alle tradizioni. Ogni protesta fu inutile e il fanciullo, preso congedo dall’amata madre, il mattino seguente partì alla volta del monastero.
Si diceva che il monastero in cima al Monte Otai fosse il più antico del mondo di Toril. Isolati dalla civiltà, i monaci vi praticavano una vita claustrale e piena di difficoltà. I monaci del Monte Otai erano dediti al culto di una divinità morta il cui nome era stato obliato da centinaia di generazioni. Il monastero, infatti, apparteneva al primo ordine monacale, il Vecchio Ordine. Per Aran si preparava un futuro difficile.

Per giungere al monastero bisognava prima affrontare una difficile scalata. La neve imbiancava perennemente i fianchi del Monte Otai. Di notte le grida degli uomini delle nevi calavano a valle trasportate dal vento. Valanghe e frane minacciavano ogni sentiero. E infine, c’era anche il pericolo di incontrare il famigerato Anarishin, il giovane drago bianco che infestava la Montagna. Spesso Anarishin, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, attaccava i greggi portando grande devastazione.
I pericoli per giungere al monastero, dunque, erano numerosi. Soltanto un uomo in tutta la vallata era in grado di affrontare simili prove. Quell’uomo era Ubotai Khan. Ubotai era un esperto ranger della zona che all’occorrenza si offriva anche come guida. Per un adeguato compenso, ovviamente. Il padre di Aran comprò i costosi servigi di Ubotai, certo che sotto la guida del ranger la vita di suo figlio non avrebbe corso pericoli.
«Mi raccomando, non allontanarti per nessun motivo dalla guida. Mi hai capito?»
«Sì, padre.»
«Non preoccupatevi, onorevole Yonshi. Conosco i sentieri della Montagna come i viottoli del mio selciato. In effetti, la Montagna è la mia casa.»
«Non ne dubito, onorevole Ubotai. Ecco a voi il pagamento pattuito…»
Il pagamento consisteva in un boccione di ottimo sakè e 5 monete d’argento. Yonshi aveva affidato al figlio una lettera di presentazione scritta dalla Sacerdotessa del villaggio, che il fanciullo avrebbe consegnato al Gran Maestro una volta giunto al monastero, più un dono costituito da due metri di soffice lana. Il padre di Aran non era un uomo ricco, ma un uomo che lavorava sodo. Per mandare il figlio al monastero Yonshi aveva dato fondo a tutto il denaro che possedeva.
«Ti saluto come ragazzo e ti rivedrò come uomo. Addio, figlio mio!»
E così Aran lasciò il villaggio che lo aveva visto nascere e crescere, per avventurarsi in cima alla Montagna più alta del mondo. Chissà se avrebbe rivisto sua madre e suo padre… chissà se avrebbe rivisto l’orso del bosco. Il fanciullo sapeva cosa lasciava ma non sapeva cosa lo aspettava una volta lì. L’immediato futuro era pieno di interrogativi.

I primi cinque giorni di scalata trascorsero tranquilli. Se camminare su una superficie ripida e ghiacciata che rischia di crollarti sotto i piedi da un momento all’altro può definirsi “tranquillo”.
Ubotai era un uomo silenzioso, e quelle poche volte che Aran provò a parlargli il ranger lo zittì consigliandogli di mantenere il fiato per la scalata. Di notte si accampavano sfruttando la sicurezza degli anfratti nella roccia, per viaggiare di giorno. Ubotai mangiava per due uomini e beveva sakè per cinque. Era un grande bevitore e una sera che finì la sua abituale razione di liquore, disse:
«Il sakè mi ricorda che esiste una valle dove ritornare. Che ovunque ci troviamo non siamo mai del tutto soli. Il sakè mi aiuta a condurre la dura vita che faccio.»
Finalmente il fanciullo capì perché Ubotai era sempre così taciturno.
«Se resti in silenzio» disse Aran «e non fai alcun rumore… sembra quasi di sentire le voci e i rumori del villaggio…»
Quella sera non dissero una sola parola, né fecero rumori. Entrambi ascoltarono la musica del proprio animo.

Il sesto giorno sembrava identico a tutti gli altri. Il paesaggio montano era così monotono, che ad Aran capitava di cadere in trance e di lasciarsi trasportare meccanicamente dai propri passi. Quel mattino, però, nessun sole era apparso. Il tempo era molto nuvoloso. Una lieve brezza soffiava dall’alto: era il gelido alito della Montagna.
«Sta’ per scoppiare una bufera, ragazzo. Presto, dobbiamo trovare un rifugio!»
Ubotai cercò di guidare il ragazzo verso un rifugio che ricordava dalle sue precedenti escursioni. Ma il posto era lontano almeno due ore e nonostante il ranger e Aran accelerarono di molto l’andatura, non riuscirono a raggiungerlo in tempo.
Le condizioni atmosferiche, infatti, andarono rapidamente peggiorando finché la neve cominciò a fioccare abbondante. Cadeva di sbieco e con violenza, accecando i due sventurati. La brezza si trasformò in un turbine impazzito, trasformando il paesaggio in un bianco inferno. Improvvisamente, il fanciullo perse di vista la guida. Aran provò a urlare il nome del ranger, ma la voce del vento selvaggio coprì le sue grida. Così il fanciullo si rannicchiò su sé stesso e attese che la bufera si placasse.
La fine giunse inaspettatamente presto. Una calma enorme si sostituì alla furia della tempesta e il sole spuntò pallido fra le nuvole. Il fanciullo setacciò la zona alla ricerca di Ubotai, ma la sola traccia del ranger era il suo zaino, che Aran trovò semi-coperto dalla neve. Sullo schienale dello zaino c’erano i segni evidenti di artigli e una larga chiazza di sangue.
«Dannato Anarishin! Io mi vendicherò, lo giuro sul mio onore!!»
Solo il drago, infatti, poteva colpire durante una bufera di neve. Quel giorno Aran si impegnò nel terzo giuramento della sua vita, e anche quella volta il fanciullo mantenne la parola data.
Aran era senza una guida, ormai. Non sarebbe mai riuscito a scampare ai pericoli della Montagna. Il solo pensare di continuare era una follia. Ma il ragazzo non avrebbe rinunciato a raggiungere il monastero e, raccolto il proprio giaciglio, le razioni e il boccione di sakè dallo zaino lacero di Ubotai continuò la scalata da solo.

Ma l’impresa si rivelò troppo ardua per un ragazzino di dodici anni. Quando calarono le tenebre sul mondo, Aran non riuscì a scovare un rifugio sicuro dove trascorrere la notte e così, per non fermarsi e morire congelato, proseguì la sua marcia forzata.
Il mattino dopo il fanciullo era esausto. Aveva dato fondo alle sue ultime energie, il suo corpo era stanco e svuotato. Il fanciullo bevve un abbondante sorso di sakè prima di scivolare addormentato sulla soffice neve.
Quando riaprì gli occhi, Aran scoprì di trovarsi in una enorme grotta ghiacciata. Era uno spettacolo bellissimo. Stalattiti di ghiaccio pendevano dal soffitto come spade di cristallo. Ovunque guardava, il fanciullo vedeva riflessa la propria immagine. Ma all’improvviso notò un’altra immagine riflessa sulla parete ghiacciata: l’immagine di una donna bellissima. L’immagine lo guardava attentamente, come se fosse la prima volta che i suoi occhi si posassero su un essere umano.
«Chi… chi sei? Dove mi trovo?»
L’immagine della donna gli rispose, ma Aran non riuscì a capire una sola parola di quello che disse. Quelle parole erano così dolci, però, che Aran si sentì tranquillizzato.
«Fatti vedere, bella signora.»
E ciò che il fanciullo vide allora gli fece gelare il sangue nelle vene. La donna emerse dalla parete ghiacciata fluttuando. Era come sbiadita, trasparente come il ghiaccio.
«Ma tu… tu sei uno spettro!»
Gli occhi della donna si rattristarono.
«Cosa vuoi da me? Mi ucciderai??»
Lo spettro scosse il capo. Poi si avvicinò alla parete di ghiaccio, e passandoci la mano sopra creò un’immagine: Aran vide sé stesso privo di conoscenza e disteso sulla neve. Poi vide la donna avvicinarsi a lui con passo lento, raccoglierlo e portarlo via, nella caverna di ghiaccio.
«Tu… mi hai salvato? Ma perché?»
Di nuovo la donna passò la mano sulla parete. Questa volta Aran vide la caverna dove si trovava ma invece di essere spoglia, era piena di fiori colorati. Il fanciullo riusciva a sentirne il profumo. Era una primavera soprannaturale.
Vedendo quell’immagine calda, Aran sorrise. Anche lo spettro sorrise.
«Ti ringrazio di cuore, onorevole spettro. Ma io devo andare. Ero diretto al Monastero.»
La donna si intristì di nuovo. Poi, passando un’ultima volta la mano sulla parete miracolosa, apparvero delle immagini terribili: Aran vide i feroci uomini delle nevi; vide dei grandi lupi bianchi e infine, vide Anarishin accovacciato su una rupe, imponente.
«Stai cercando di dirmi che sarebbe meglio se io restassi qui con te?»
La donna annuì e sorrise.
«Ma qui non c’è niente. Morirò senz’altro di fame!»
Lo spettro raccolse della neve e gliela porse.
«Dovrei mangiare la neve?»
Aran si sentiva la gola arsa e così inghiottì volentieri il boccone di neve. Ma sciogliendosi in bocca, la neve non aveva il sapore neutro dell’acqua, né era gelida. Il fanciullo sentì del caldo miele scivolargli giù per la gola, dolcissimo. Così raccolse altra neve, immaginando di mangiare del ramen preparato dalla madre. E quando si infilò in bocca il secondo boccone, la neve scottava ed aveva tutto il sapore della zuppa.
Il fanciullo rievocò le figure minacciose dei lupi, degli uomini delle nevi e del terribile Anarishin. Poi guardò la graziosa signora. Era meglio restare, almeno per il momento.

Il momento divenne un giorno. Poi due, tre, una settimana, un mese, un anno. Aran restò in compagnia dello spettro per cinque, lunghi anni. Tempo in cui il fanciullo divenne un uomo e in cui riuscì a comunicare con lo spettro imparando il linguaggio celeste. Come gli disse lo spettro, infatti, lei era in grado di capire qualsiasi lingua ma le era permesso parlarne una sola.
«Il mio nome è Yugi on-na. Io sono lo spirito della Montagna. Io sono la Montagna. È dal giorno della creazione che vivo qui, sola. Ma la dea mi aveva avvertito che un giorno sarebbe arrivato…»
«Chi? Chi sarebbe arrivato?»
«Sapevo che un giorno sarebbe arrivato “Colui che Porta la Primavera”. Sapevo che un giorno sarebbe arrivato colui che avrei amato sopra ogni altra cosa… Sapevo che un giorno saresti arrivato. E così ho atteso per migliaia e migliaia di anni il tuo arrivo.»
«Ma Yugi, prima che tu mi salvasti io avevo prestato un giuramento.»
Lo spettro tremolò, come se avesse intuito a cosa si riferisse il ragazzo.
«Intendi uccidere Anarishin.»
«Anarishin ha ucciso Ubotai Khan, un brav’uomo. Io giurai di vendicarlo.»
«Un giuramento fatto sul Monte Otai deve essere mantenuto. Ma potrei aiutarti ad ucciderlo, se vuoi.»
Aran la guardò incredulo per un istante. Possibile che quella donna delicata fosse davvero così potente? Ma notando la fermezza della donna, il ragazzo capì che Yugi on-na non mentiva. Lo avrebbe ucciso, se soltanto lo avesse voluto.
«No. Il giuramento è mio e tocca a me solo uccidere Anarishin, o morire nel tentativo.»
«Ma Anarishin ti ucciderà! Ti avrei insegnato la tecnica del Pugno Celeste, ma ci vogliono cento vite mortali per apprenderla.»
«Potrei raggiungere il Monastero, e apprendere le arti marziali.»
«Il Vecchio Ordine è potente, ma… io conosco una soluzione migliore. Ti affiderò a Müün, il Saggio del Bosco. Lui ti insegnerà lo stile dell’orso.»
«Hai detto un orso? È possibile che? …»
«Sì, è proprio l’animale che ti salvò dal gelo della notte quando eri un bambino. Noi spettri sappiamo riconoscere un animo buono quando ne vediamo uno.
«Digli pure che ti manda Yugi on-na. Sì, farà questo favore a una vecchia amica. Ma prima che tu vada, giurami di tornare.»
«Tornerò appena avrò ucciso Anarishin, lo giuro.»
«Va’ con la mia benedizione, amore mio. Ma ricorda: un giuramento sul Monte Otai è indissolubile. Se non manterrai la promessa, il fato stesso si accanirà su di te e sulle persone che ami.»
Ma Aran O-denshi non prestò fede alle parole dello spettro.

Dopo cinque anni dal giorno della sua partenza, Aran partì per fare ritorno alla valle. Era così concentrato dalla missione, che non si fermò neppure al villaggio per salutare i suoi genitori. E poi, cosa gli avrebbe detto? Che lo spirito della Montagna lo aveva salvato?
Il ragazzo puntò dritto per il Bosco, e qui rincontrò l’orso. Non era affatto invecchiato dall’ultima volta che l’aveva visto.
«Saluti, onorevole orso. Sono Colui che Porta la Primavera e…»
«E così sei tornato. Hai portato con te il dono che mi avevi promesso?»
«Uh?»
«La marmellata e il latte, li hai portati?»
«Ma… ma io mi sono dimenticato. È passato così tanto tempo…»
«Tanto tempo? Non è mai “tanto tempo” quando bisogna rispettare una promessa. Yugi on-na non ti ha insegnato proprio niente, ragazzo?»
«Ma come fai a sapere…»
«Sono veramente poche le cose che accadono senza che io ne venga a conoscenza. Tienilo bene a mente, ragazzo.»
«Sì, signore.»
«Allora, vuoi diventare un combattente, no?»
Aran annuì.
«Ti aiuterò, ma a costo che tu aiuti me.»
«In che senso?»
«Oh, niente di complicato. Vorrei dare una ripulita alla mia caverna, raccogliere un po’ di miele… Accetti?»
Di nuovo Aran annuì. Da come ne parlava l’orso, sembrava si trattasse del lavoro più facile del mondo. Il ragazzo non poteva neanche immaginare quanto si sbagliasse.
Il lavoro cominciò immediatamente. La caverna era sporchissima. Terra, foglie, briciole di cibo: lo sporco si annidava ovunque. E appena il ragazzo finiva di pulire, una folata di vento trascinava nella caverna altra terra e altre foglie. In più, l’orso faceva di tutto per sporcare la caverna. Mangiava i frutti nella caverna gettando le bucce ovunque – e lasciatevi dire che Müün era un grande mangiatore. Sembrava, insomma, un’impresa impossibile. Ma con il tempo, Aran elaborò una tecnica infallibile e dopo un anno di meticoloso, pazientissimo lavoro, la caverna poteva dirsi finalmente pulita.
Il secondo lavoro riguardava la raccolta di miele. C’erano degli enormi alveari nel cuore del bosco, abitati da api giganti. Una puntura di ape gigante era in grado di stordire un uomo. Due punture potevano risultare fatali. Aran si avvicinò con cautela, cercando di non farsi scoprire dalle api guardiane. Mentre raccoglieva il succulento nettare nel barattolo, però, l’alveare si svegliò improvvisamente. Aran fu attaccato da una dozzina di api e dopo averne abbattute un paio, fu costretto a fuggire per salvarsi la pelle. Ma anche questa era fatta.
Così cominciò l’addestramento di Aran, che durò più di quattro anni. L’orso si rivelò un ottimo Maestro, sempre pronto a correggere i suoi sbagli e a fornirgli utili consigli. Spesso passeggiavano per il bosco alla ricerca di creature e spettri malvagi da punire. E presto, il bosco fu liberato di oscure presenze.
«È solo con la pratica che si raggiunge il vero potere.» Gli ripete il Maestro ad ogni occasione.
La particolarità della tecnica adoperata da Aran consisteva in mosse potenti ma allo stesso tempo molto veloci che ricordavano gli attacchi di un orso inferocito. Ma il ragazzo comprese la forza del suo stile di combattimento solo quando si scontrò con un gruppo di pericolosi banditi. I banditi, in fuga dalla giustizia dei samurai, si erano rifugiati nel Bosco di Eto. Il caso volle che quei banditi si stabilirono precisamente nella tana dell’orso e quando Aran li invitò gentilmente ad andarsene, quelli gli risero in faccia e lo colpirono con un dardo. Un errore imperdonabile. Il giorno dopo, fuori la caserma del villaggio, i samurai trovarono i banditi storditi e legati con una fune. Erano pieni di lividi, e con una storia incredibile da raccontare: erano stati sconfitti da un uomo-orso! Vennero creduti ubriachi.
«Adesso sei pronto. Possa il tuo pugno non fallire.»
«Non fallirò, Maestro Müün.»
«Ah, e la prossima volta portami del latte e marmellata. D’accordo?»
«Lo prometto!»

Aran sapeva dove si trovava l’antro del drago. Lo aveva veduto più di una volta sulla parete di ghiaccio ai tempi in cui viveva con Yugi on-na. Fu un gioco da ragazzi per lui intrufolarsi e aspettare che Anarishin tornasse dalla sua battuta di caccia. E quando il drago entrò nella caverna, Aran uscì allo scoperto.
«Anarishin! Uccisore di uomini! Oggi morirai!»
«Chi sei tu?»
«Io sono Colui che Porta la Primavera, e sono qui per vendicare la morte di Ubotai Khan, l’uomo che uccidesti su questa montagna dieci anni or sono durante una bufera di neve!»
«Aaahhh… ricordo. Non era saporito come speravo… ma tu mi sembri un boccone più succulento di lui. Sarai tu a morire oggi, sciocco akrazad¹.»
Anarishin non perse tempo a sputare il suo micidiale soffio gelido. Credeva di aver steso l’umano per bene, ma quando la folata di ghiaccio si dissolse, Aran era ancora là: era riuscito ad evitarla! Il ragazzo si lanciò sul drago e con una raffica di colpi ben assestati gli inflisse gravi ferite. Il drago sembrava confuso dalla velocità del monaco. Il ragazzo era sufficientemente agile da schivare i suoi colpi. Ma in un impeto di rabbia, Anarishin riuscì a colpire il ragazzo con abbastanza forza da scaraventarlo a terra. Il drago si preparò ad azzannarlo con il suo morso quando Aran, con una mossa inattesa, lo colpì al collo spezzandoglielo. Il crudele e possente Anarishin si abbatté su sé stesso con un tonfo così forte che generò un’enorme valanga di neve. Quando il frastuono della valanga cessò, rimase solo il silenzio. Aran si alzò da terra e con un rispettoso inchino salutò il suo avversario. La vendetta era compiuta.

La notizia della morte di Anarishin presto riecheggiò per tutta la valle. La gente si chiedeva chi fosse il grande eroe che era riuscito ad abbattere il famigerato drago. I connestabili dei villaggi si riunirono fra loro e formarono un gruppo di ricerca per scoprire il nome del misterioso beniamino. Tempo dopo, il gruppo di ricerca fece ritorno annunciando di averlo trovato.
«È un tipo strano, che tempo addietro ci aiutò a catturare i banditi di Tsukama. Vive nel Bosco di Eto in compagnia di un orso molto vecchio. La Sacerdotessa dice che è uno spettro, ma nessuno conosce il suo nome.»
Così, i connestabili si recarono in pellegrinaggio nel bosco per porre i propri umili ringraziamenti all’eroe.
«Cosa volete in dono? Domandate, onorevole eroe, e noi faremo tutto il possibile per accontentare la vostra richiesta.»
«Davvero? Uh, io chiedo… chiedo… tantissimo latte e tantissima marmellata. Potete darmela?»
I connestabili, che si aspettavano una richiesta in oro sonante, rimasero stupefatti. Ma acconsentirono lo stesso alla strana domanda dell’eroe e, insieme a centinaia di litri di latte e di conserve di marmellata, gli donarono un sacchetto pieno di gemme. Quando si sparse la notizia che l’eroe era stato scoperto, sempre più persone si recarono nel bosco per conoscere il leggendario combattente. Fu così che, con enorme gioia, un padre e una madre ritrovarono il proprio figlio disperso da dieci anni.
«Abbiamo fatto di tutto per trovarti. Pensavamo che la Montagna ti avesse inghiottito, e invece… È ora che tu torni a casa, figlio mio.»
Aran non poteva rifiutare e, salutato il Maestro – che fra l’altro era felicissimo del latte e della marmellata – tornò a vivere con i suoi genitori.
Il ragazzo aveva lasciato il suo paese come un buono a nulla e uno sconsiderato, e vi faceva ritorno come un eroe. Non male. I ragazzi lo rispettavano e cercavano la sua amicizia mentre le ragazze lo seguivano con gli occhi e cercavano le sue attenzioni. In effetti, Aran era sempre stato un bel ragazzo. Fu così che, osannato dalla sua gente, Aran si dimenticò della promessa fatta a Yugi on-na. Un anno felice trascorse…

Dopo un anno passato tra divertimenti e baldoria, Aran sentì il bisogno di ritornare al Santuario nel bosco per meditare.
Ma una volta arrivato, il ragazzo realizzò una tremenda scoperta: il suo Maestro era scivolato in un coma profondo. Aran provò a scuoterlo, a far rumore, ma non ci fu nulla da fare: l’orso dormiva profondamente. Fu così che Aran ricordò la profezia di Yugi on-na: “Se non manterrai la promessa, il fato stesso si accanirà su di te e sulle persone che ami.” Aveva detto la donna.
Senza perdere altro tempo, il ragazzo scalò la Montagna e raggiunse la caverna ghiacciata per mantenere la sua promessa.
Trovò la donna inginocchiata e piangente con il bel viso fra le mani delicate.
«Sob! Ti avevo avvertito che un giuramento fatto su questa Montagna non può essere tradito. Sigh! La forza del fato qui sopra è grande…»
«Perdonami, Yugi on-na! Ma ora sono qui, e sono pronto a mantenere il mio giuramento!»
«Ma non capisci, amore mio? È il fato stesso che devi pregare, non me.»
«E come posso fare? Parla, ti scongiuro.»
«Devi recarti alla Vera Sorgente, dove i destini degli uomini e dei draghi scorrono senza sosta… Ma è così lontana… Non voglio che tu te ne vada un’altra volta.»
«Adorabile Yugi, io non avrò pace finché il mio Maestro non si sveglierà da quel sonno maledetto. Perché solo adesso capisco la profonda affezione che mi lega a lui. Io gli devo ciò che sono, nel corpo e nello spirito. Non posso dimenticarlo.»
«Ti aiuterò, Aran. Percepisco la sincerità nel tuo cuore e sento che farai tutto in tuo potere per tornare da me.
«La strada per la Vera Sorgente non è segnata sulle mappe dei mortali, né dei draghi. Per raggiungerla, dovrai seguire la stella di Hanado. Continuerai senza indugio nella direzione che la stella ti indica per miglia e miglia finché, stanco e invecchiato di qualche anno, troverai ciò che cerchi. Non ti potrai sbagliare, perché sarà il fato stesso a parlarti.
«Una volta lì, usa questa ampolla magica dotata di tocco fantasma per raccogliere l’acqua eterea della Sorgente. Non c’è altro modo.
«Ma dovessi tradire di nuovo il tuo giuramento una volta compiuta la missione, allora gli spiriti dei morti usciranno dalle tombe della Necropoli di Kuor e verranno a prenderti. La loro furia sarà terribile!»
«Tornerò da te, adorabile Yugi on-na, e porterò con me la primavera nella caverna di ghiaccio.»
«Ed io ti porterò la forza della Montagna, insegnandoti la tecnica del Pugno Celeste. Ci ameremo per l’eternità!»
Così Aran salutò la sua promessa sposa per intraprendere il periglioso viaggio verso la Vera Sorgente. Il grande eroe attraversò oceani, deserti, montagne, giungle e pianure; combatté nemici dalla potenza terrificante. Ovunque trionfando, portando la primavera del bene e della giustizia…
Questa è la storia del più forte dei mortali di tutte le Ere, che sposò la figlia della Deaº e apprese la tecnica sacra del Pugno Celeste.

¹Umano in draconico.
ºSelune.
virae
Waylander
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Località: Dros Delnoch
MessaggioInviato: Mar 20 Set 2005 15:35 pm    Oggetto:   


La storia mi è piaciuta molto. Ci sono delle cose che limerei ma, in definitiva, non sono molte. Purtroppo non ha conclusione: è tirato via come se non avessi voglia di finirlo. Peccato.
""The earl and the legend will be together at the wall. And the men shall dream, and the men shall die, but shall the fortress fall?"
[Legend- Gemmell]
Renis
Hobbit
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Località: Lerwyck, Shetland Islands
MessaggioInviato: Mer 21 Set 2005 14:56 pm    Oggetto:   

e' vero, ma questo scritto non e' un vero e proprio racconto quanto un background, la storia di un personaggio che ho avuto l'onore di giocare a D&D.
grandi gesta, renis
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