anno nuovo, racconto nuovo!
in realtà è di marzo, ma rileggendolo ho visto che ha superato l'esame del tempo...vediamo se supera anche quello dei lettori!
Per favore, commentate in tanti e soprattutto siate assolutamente spietati!
– Mi raccomando, non fate tardi. Non restate al buio!
La madre sorrideva, fu la voce a tradirla. Era preoccupata, e ne aveva tutte le ragioni: non avrebbe mai più visto i suoi figli. Li guardò incamminarsi oltre i campi, due giovanotti robusti con le guance rosse e lucide come le mele che iniziavano a maturare sugli alberi, due ragazzi che, come tutti gli altri, amavano la caccia e i boschi tra cui erano cresciuti. Si sentivano al sicuro nel gioco di ombre e sole che palpitava sotto gli alberi, ma i Figli della Tomba non temevano nessun terreno e non avevano bisogno di aspettare che il buio scendesse a nasconderli. Prima di sera i bracciali di cuoio che i due giovani portavano per proteggersi dalle corde degli archi sarebbero stati sostituiti dal ferro delle catene. La luna piena, se avesse potuto penetrare le profondità della terra, avrebbe visto le loro gole tagliate lasciare uscire l'anima. Nessuno sapeva dove li avessero portati, e nessuno li cercò. La madre si consumò giorno per giorno, aspettando invano di vederli comparire in fondo al sentiero.
I rapimenti erano quasi quotidiani in ogni angolo del regno; sparivano i nomadi dell'altopiano del Situan e i pastori delle valli del Moos, i barcaioli della Ragnatela e i borghesi dei porti del sud, i feudatari dalle loro tenute e i villani dalle fattorie. E sparivano gli organisti, tanto che, nelle Accademie Musicali, gli allievi disertavano i corsi d'organo e gli antichi strumenti languivano nei templi senza che nessuno osasse toccarli. La gente non viveva, chiusa in casa appena il buio calava; le milizie pattugliavano strade e villaggi, ma talvolta l'insolenza dei Benetnaschsen si spingeva al punto di rapire i soldati stessi. I sacerdoti piangevano ai piedi di altari muti e impotenti. Il re, incanutito prima del tempo, aspettava più solo il giorno in cui la folla inferocita avrebbe sfondato le porte del suo castello, asce e picconi in mano, per chiedergli atto della sua incapacità di proteggerli.
La musica ipnotica si levava verso l'alto sospinta dai gas di decomposizione; ottantotto cadaveri freschi si intiepidivano nella fossa ai piedi dell'altare. Ottantotto corpi di ogni sesso ed estrazione sociale, ma tutti rigorosamente che erano stati giovani e in buona salute, in modo che il valore del sacrificio fosse inestimabile. I Benetnaschsen li avevano presi in ogni angolo del regno, un regno in cui le persone stavano lentamente imparando a conoscerli e temerli, in cui il loro nome era diventato sinonimo del Male assoluto. Nel corso degli anni innumerevoli altari erano stati eretti in ogni luogo ad altrettante divinità, innumerevoli offerte lasciate sui loro piani di pietra, legno, oro, madreperla; ma i Benetnaschsen erano assassini e rapitori addestrati, e sostenuti dalla Morte in persona. I giovani avrebbero continuato a sparire da ogni villaggio, e nessuno riusciva a trovare il nascondiglio della setta. Nessuno l'avrebbe mai trovato.
Sèkisir, Supremo Sacerdote dei Figli della Tomba, riaprì gli occhi e staccò le mani dai battenti di ossidiana intarsiata che aveva appena chiuso. L'organo alla sua destra mormorava sommesso le lodi dell'Innominabile, sotto le dita dello schiavo incatenato allo strumento. L'organo a sinistra riposava, lo schiavo adagiato sul sedile in attesa del suo turno. Entrambi avrebbero dedicato ogni istante della loro vita a far cantare le canne d'argento, fino alla morte; altri erano venuti prima e altri sarebbero venuti dopo, per la gloria del Dio Ultimo.
Il sacerdote si incamminò maestosamente lungo la navata, seguito dai ghigni vuoti dei teschi che rivestivano le pareti, e raggiunse la Coppa, dove i sacrifici attendevano il loro destino. Offerti al culmine della luna piena, avrebbero inebriato i sensi dell'Innominabile fino alla luna nuova, quando la carne molle sarebbe stata facile da raschiare via. E nel frattempo le ottantotto celle si sarebbero riempite di nuovo, Sèkisir immaginava già i suoi seguaci che razziavano in segreto i villaggi, la gente in preda al panico, le famiglie disperate. Ripensò ai giorni in cui poteva passeggiare nel corridoio accanto alle prigioni e sentire attraverso la pietra umida i pianti e le grida inutili: suppliche al buio vuoto per poter rivedere i figli, i genitori, la luce del sole. Preghiere a divinità sorde e indifferenti, che non potevano opporsi ai voleri dell'Altissimo o che forse non erano mai esistite, poiché Egli era l'Unico, il vero Dio. Il tepore che gli riempì il corpo lo fece rabbrividire di piacere. Rivide il corteo di Oblati che si stendeva come un nastro attraverso la navata, corpi nudi su cui erano stati marchiati a fuoco i sigilli della Tomba; e lui stesso che, salmodiando nella musica afrodisiaca, immergeva la lama di ossidiana in quelle gole palpitanti, sentiva gli ultimi respiri scivolargli tra i polpastrelli e lasciava precipitare la carne ancora calda della Coppa ai piedi del Dio, per la Sua eterna gloria. Gli scheletri puliti sarebbero diventati il corpo della cappella: teschi come capitelli e pareti, fasci di vertebre per colonne, frange di falangi e ossa lunghe per reggere i lampadari, scapole a segnare lo spigolo degli archi. L'abside era un immenso costato, che custodiva come cuore pulsante l'essenza nera del divino. Alla luce tremula dei bracieri Sèkisir poteva intuire lo spazio della cripta, ormai un alveare di cappelle in crescita continua e inarrestabile, slanciato verso l'infinito in tutte le direzioni per l'eterna celebrazione dell'unico Dio che era al di sopra delle leggi divine. Non poté fare a meno di sorridere: quel tempio era un'opera d'arte ineguagliabile, che avrebbe reso grandi i Benetnaschsen agli occhi del Signore del Dopo, assicurando loro un destino radioso il giorno della Resa dei Conti.
Piegò un ginocchio a terra e il capo sul petto, chiuse gli occhi e inspirò a fondo le esalazioni dei cadaveri, preparando il suo cuore ad accogliere la Voce.
– O Innominabile dai Mille Nomi, Oscurità Splendente Senza Volto, Ombra con Ali Veloci, Mano a cui nulla sfugge, Terrore Notturno, Tu che siedi glorioso al di sopra delle leggi divine, Tu che stringi in pugno i destini dei mortali, volgi benevolo gli occhi a noi miseri...
–
E piantala!
Sèkisir spalancò le palpebre. Un fumo nero che odorava d'incenso e faceva rizzare i peli come l'alito di una catacomba si spandeva nel tempio dall'abside, e in mezzo a quel fumo si intuiva una forma umana che sfiorava la cupola. Un corpo e un volto d'ineffabile bellezza, pelle d'alabastro solcata da disegni neri che si fondeva nel chiaroscuro delle ossa sulle pareti. Il fumo evaporava da quella pelle, vorticava languidamente intorno al corpo e offuscava le fiamme delle candele, facendole sembrare immobili e gelide. Due iridi violette baluginarono nel buio, e Sèkisir si sentì inchiodare a terra da quello sguardo come un insetto nella collezione di un naturalista.
– Piantatela, tutti!
Una mano, perfetta come un artista non avrebbe saputo immaginarla, indicò la fossa davanti all'altare.
– Guarda qui! Ottantotto morti, niente meno! Mi ci vorranno giorni interi di lavoro a sistemarli tutti... Cosa credete di fare? Sono veramente stufo di voi, stufo marcio! Sempre lì a pregare, a chiedere questo e quello, come se gli dèi fossero al vostro servizio, come se a qualcuno importasse qualcosa della vostra sorte! La salvezza eterna dell'anima, niente meno! Solo questo sapete fare! Strisciare per terra e chiedere, chiedere senza sosta,
pretendere! E mi riempite di sacrifici, e gli schiavi che fate morire come mosche, e le anime si lamentano perché sono troppe, non sanno più dove andare, tutti gli Aldilà sono sovraffollati e mi toccherà crearne di nuovi, voi stupidi mortali non avete idea della fatica che costa creare un mondo!
La sua voce riverberava sempre più alta nella cripta. Agitava convulsamente la falce, decapitando colonne e mietendo lampadari in un gran fragore di ossa che andavano in frantumi. L'organo era ammutolito, gli schiavi, rannicchiati sulle pedaliere, spiavano la scena da dietro le gambe degli sgabelli.
– Già vivete poco, vi ammazzate tra voi, vi fate sempre la guerra, ci mancavano ancora i sacrifici! E poi tanto sono io che corro avanti e indietro a prendere anime nuove, sempre dietro ai vostri maledetti festini, non mi fermo un attimo, non mi riposo un attimo, quattro nuovi Aldilà da quando avete fondato questa orribile setta, e tutte le volte la stessa storia, molla la coperta, piglia la barca, attraversa quel fetido lago, convinci il morto a salire e sorbisciti le sue lamentele, e sono novantasette anni che cerco di finire lo stesso libro!
Sèkisir tentava senza successo di fondersi con il pavimento.
– O Magnifica Tenebra, è tutto in malinteso! Noi credevamo... Diteci come possiamo redimerci, noi viviamo per il Vostro diletto!
– Cosa? Mi prendi anche in giro?
– Cosa dite! Siamo qui per servirVi! Ordinate e mi farete felice, o Stella che guida il Carro Funebre!
– Magnifico titolo. È un complimento?
– Nessun complimento è degno di Voi!
– Qualcuno lo
spiaccichi...
– Signore!
Il sacerdote batté la fronte a terra con tanta foga da rimanerci stordito. Benetnasch agitò seccamente una mano.
– Basta, adesso! Basta con questa commedia! Ho avuto un'idea meravigliosa!
– Ma certo, Signore, tutte le Vostre idee sono meravigliose!
– Sta' zitto. Prendi carta e penna, su, svelto! Muoviti!
Sèkisir girellò in tondo sentendosi una gallina sotto il temporale, poi si ricordò della sagrestia. Sparì dietro la porta di ebano e tornò poco dopo con un rotolo di pergamena, un calamaio e una penna di cornacchia. Lisciò il foglio sull'altare e vi si inginocchiò davanti, cercando goffamente di non guardare il suo interlocutore e stirando il collo all'inverosimile per vedere quel che avrebbe scritto.
L'Innominabile intrecciò le dita e iniziò a dettare.
– Allora, scrivi. La data, innanzitutto, visto che a voi mortali piace contare i giorni. Poi: “Io, Sèkisir, Supremo Sacerdote eccetera, nel pieno delle mie facoltà mentali e sotto divina ispirazione, registro”, no, registro non mi piace, “stendo”, ecco, “stendo nella presente le mie ultime volontà”...
–
Come?
– Non mi interrompere! Ecco, ho perso il filo. Dove eravamo?
– A “stendo le mie ultime volontà”.
– Ti ho detto di non interrompermi! “Stendo le mie ultime volontà affinché siano trasmesse ai miei confratelli e ai posteri, ed eseguite come Onore richiede. L'Ordine dei Figli della Tomba è da ritenersi sciolto, non esiste e non esisterà mai più. I confratelli potranno fare di loro stessi quel che vorranno, ma non una sola vita verrà più offerta. Non ci saranno più sacrifici. Gli Dèi non gradiscono, e meglio sarà per noi fingere che non esistano.” a capo: “In fede” e qui sotto firmi. Anche col sangue, che fa sempre scena.
Sèkisir si tagliò prontamente un dito con il coltello sacrificale, pentendosi subito dopo per lo zelo eccessivo. Una costellazione di gocce scure circondò la sua firma.
– Adesso chiudi la pergamena col tuo sigillo. E poi lasciala bene in vista, qui sull'altare, che la trovino subito.
– M-ma, se Vostra Splendida Oscurità permette, posso consegnarla io stesso al...
L'Innominabile arricciò le labbra in un sorriso ringhioso:
– E che testamento sarebbe, consegnato dal morto in persona? Su, basta adesso, andiamo: se mi serve a fermare questo eccidio, ho deciso che un posto nel Tartaro te lo trovo!
Le fiamme dei bracieri vacillarono mentre il fumo d'incenso svaniva lasciando la cripta vuota.
Quando la barca d'ebano, dopo un penoso strisciare tra le nebbie, toccò la sponda, c'era già un drappello di anime ad aspettarli. Benetnasch fece scendere il sacerdote con una pedata, mentre uno spirito si faceva avanti di qualche passo.
– Signore, veniamo a presentarvi una petizione firmata dai residenti dei Campi Elisi: la situazione sta diventando veramente insostenibile, c'è rumore di giorno e schiamazzo fino a tarda sera, e tutti questi nuovi immigrati ci rubano posto! Esigiamo un vostro intervento affinché questo increscioso sovraffollamento abbia rimedio, nel rispetto...
L'Innominabile allungò un braccio, indicò Sèkisir, che si stava rialzando goffamente, e disse solo:
– Colpa sua.
Staccò la barca da riva con un vigoroso colpo di remo e si allontanò in tutta fretta.
Il tumulto dei morti lo seguì per tutta la traversata.