Questo è un mio racconto che
forse si trasformerà nel prologo di un nuovo libro. Può sembrarvi banale, ma io confido in qualche spietato commento. Ciao a tutti e buona lettura
Il pittore di quella tela aveva spennellato rosso e oro per colorare il cielo, con una spruzzata di nocciola aveva disegnato una chioma ricciuta e due occhi grandi, poi il profilo di una donna che guardava il prato, nascosta in un mulino. Per dipingere la bimba che aveva in braccio, solo due pennellate di candore.
E il quadro era pronto, semplice e caldo, senza decori né inserti preziosi.
Era solo una piana e un mulino, una donna e sua figlia. Già. Sembrava proprio un dipinto, ma i fiori del prato si muovevano davvero, e il laghetto che rifulgeva sotto il sole era realmente incantevole. Così come la donna abbracciava sua figlia e sospirava. Purtroppo quello non era un quadro. Era la cruda realtà, da cui Selenia e sua figlia scappavano senza sosta, assaporando i pochi attimi dolci della loro vita; una vita da prigioniere. E anche quella volta la minaccia aspettava dietro l’angolo, pronta a squassarle con le sue fauci, rimasuglio di un passato ancora forte. In fondo cosa aveva chiesto, quella donna? Solo di trascorrere un’esistenza placida e calda, al fianco di suo marito Narvalo e della sua bambina. Desiderava abitare in una casupola con un orto profumato, con le verdure carnose e i pomi rossi, cucinare delizie ricercate per il suo amato che rincasava, accudire sua figlia secondo sani principi, e poi, la notte, raccontarle favole curiose ed intriganti finché non avesse chiuso gli occhi. Voleva baciarla sulla fronte e poi spegnere la luce, addormentandosi in quella realtà magnifica. Ma tutto era andato storto sin dall’inizio, lei e Narvalo non si sarebbero mai dovuti incontrare, il loro amore doveva restare un attimo di follia. Invece loro si erano spinti avanti con coraggio, e avevano messo al mondo un’adorabile bambina, però non avevano retto, Narvalo si era sacrificato per concedere a lei e a Neyel un po’ di tempo. Per fuggire. Una lacrima colò dalle sue ciglia, scivolando sulla gota e irrigando la bocca che, un tempo, aveva goduto di baci affettuosi. Ma ora era tutto finito, tutto spento per sempre. Guardò la sua bambina, le labbra che descrivevano un arco triste.
La pelle dell’infante era nivea, la testa velata da ciuffi rossicci. Aveva piccole mani, piccole gambe, piccoli occhi che guizzavano a destra e a manca.
La donna scolò la sua tazza di tè. Il profumo zuccherino carezzò il naso della bimba, rivelando l’aroma del limone. Selenia squadrò il fondo lucido della terrina, poi gli occhi si socchiusero, seguendo la danza soave dei fiori, mille boccioli rosati e freschi che ballavano le note imprevedibili del vento. Ipnotizzata, si avvolse nel mantello e spalancò la porta malandata. La luce del tramonto baciò lei e sua figlia, che si tuffava nel mare di fiori in bonaccia. Ridacchiò, carezzando quel turbinio di polline. “Ricordati che sei nata qui. Qui dove la terra è fresca, l’erba verde e il sole sempre vivo. Ricordati, Neyel” Mormorò, prima di prenderla fra le braccia e marciare verso nord. Avanzò a lungo, finché le prime stelle non fecero capolino tra le nubi notturne, brillando timide nel cielo.
Era sfinita, aveva raggiunto il suo limite.
Un bruciore penetrante le scavalcò la pelle, con un gemito dolorante s’accasciò a terra. Sulla sua spalla un enorme squarcio rosso. “Ti ho trovata, piccola dannata!”
Selenia trasalì, il suo midollo fu scosso da un brivido. “Mi hai seguita…” “In lungo e in largo, sottospecie di creatura ributtante. Che pensavi di fare, eh? Di fuggire con quell’obbrobrio?” La voce dell’uomo trasudava rabbia, Selenia si mise davanti a sua figlia, i denti stretti per l’affanno: le sue ossa erano lacerate. “Tu non hai il diritto di chiamarla così, viscido!” Sibilò inviperita la donna, tramortita da un ceffone bruciante. “Quella cosa è la nostra vergogna…”
“La tua razza è un disonore per il mondo” Un altro schiaffo, un calcio, una raffica di colpi che sprizzavano gocce fulve. Selenia si dimenò, graffiò, deturpò le braccia candide del suo aggressore, un pericolo da cui era fuggita per quasi un anno, confortata solo dal riso delizioso di sua figlia. La donna spinse ancora, gridò, scalciò come una belva che sapeva di non avere scampo. Lo seppe quando i suoi occhi si spalancarono, stralunati. Intorno a lei un marasma di bagliori, luci confuse. Ruzzolò a terra, preda del dolore e dei ricordi. Rivide gli ultimi istanti passati con Narvalo, le suppliche, i pianti, il loro addio in cui si addensavano rancore e sofferenza. Perché? Perché era successo tutto quello, per quale assurdo motivo lei e la sua famiglia dovevano essere perseguitati? Un rantolo disperato sgusciò dalla sua gola, tutte le sue speranze, i suoi sogni rosati…tutto veniva inghiottito dallo stomaco insaziabile della morte. Era finita male. Nulla l’avrebbe più salvata.
E mentre l’uomo sputava sul terreno e fuggiva via, il sangue scendeva copioso dal suo collo, la vista si offuscava, si oscurava, finché non scomparve. Di lei restò solo una pozza tonda e rossa, qualche gemito e un capello castano. E poi una bambina accucciata lì vicino, che piangeva, mentre una folla vociante correva tra i viali della cittadina, e due mani affettuose la prendevano in braccio per portarla via.