Visto l'apprezzamento dato a L'Ultimo Nemico, dello stesso stampo è L'Ultimo Baluardo (racconto che riprende il passato di un personagio secondario di L'Ultimo Potere): anche se con personaggi differenti, le due storie hanno un filo conduttore che li unisce. Per motivi si spazio e restare nei termini di regolamento del forum, psoto la prima parte del racconto: se suscitasse interesse, si può leggere la storia completa
qui.
I primi raggi dell’alba sbucarono dalla cima del promontorio, rendendo le ombre del sentiero oscure come la notte che si erano lasciata alle spalle. Nonostante l’aria fredda del mattino, Amos giunse sulla cima con la fronte imperlata di sudore, il fiato che si condensava in piccole nuvole davanti alla bocca. Aspettando che il respiro tornasse regolare dopo la salita, lasciò che il sole del mattino lo scaldasse, come se questo servisse anche a scacciare i sogni del sonno. Le notti non erano mai serene: le inquietudini e le tensioni della giornata si riflettevano durante il periodo del riposo, ombre di paure che non lo lasciavano un solo istante, risucchiandogli le energie.
Un luccichio proveniente dalla sua sinistra gli punzecchiò gli occhi, attirando la sua attenzione. Seguì il percorso tra le rocce, attento che gli spuntoni sporgenti e taglienti non lacerassero i suoi abiti. Il dedalo lo portò in uno spiazzo di pochi metri, affacciato sulla pianura sottostante che si allargava fin dove arrivava l’orizzonte.
Il luccichio si spense e Amos si lasciò cadere su un masso che arrivava al suo ginocchio, coprendosi gli occhi con una mano, le spalle che si afflosciarono, come se il peso della notte di guardia fosse giunta tutta in una volta a reclamare il proprio tributo.
— Perché? — Le parole uscirono in un sussurro stanco. — Perché l’hai fatto Arist? —
Lentamente passò le dita sulle palpebre, sospirando in maniera ancora più lenta. Riaprì gli occhi, posandoli sui rivoli rossi che scendevano tra le rocce. Un rosso così denso che ricordava quello di rubini preziosi, ma che invece valeva molto di più.
Le ultime gocce caddero dalle dita pallide, increspando per un breve istante la pozza tra le gambe aperte di Arist.
Quand’era stata l’ultima volta che aveva sentito un suo incoraggiamento?
Avrebbe dovuto captare i segnali, capire che c’era qualcosa che non andava. Ma in un mondo abitato da gente più dura della pietra, non c’era né spazio né attenzione per qualcosa di fragile come una parola gentile: troppo concentrati sull’essenziale per apprezzare la delicatezza di un simile gesto.
Posò lo sguardo sugli occhi vitrei fissi sull’orizzonte. Che cosa avevano visto per averlo spinto a compiere quel gesto? La piana era vuota, senza nessun segno di movimenti sulla sua superficie. Questo però non significava che non ci fosse nulla: di tutti, Arist era quello che era sempre riuscito a vedere più lontano, ad andare oltre ciò che si vedeva. Un senso di gelo lo colse alla bocca dello stomaco. Sapeva che erano sulle loro tracce, che li stavano braccando da tempo, ma credeva che fossero ancora lontani. Questo significava che erano vicini? Che ogni possibilità fosse svanita nel nulla dopo tutti i loro sforzi?
Si alzò in piedi, arrivando fino al bordo del dirupo. — Che cosa hai visto per arrivare a questo punto? — Sussurrò mentre scrutava l’orizzonte in cerca di un indizio che sapeva non esserci. Stancamente si voltò, percorrendo i pochi passi che lo separavano da Arist, fermandosi a poche spanne dal coltello immerso nella pozza di sangue. I tagli sugli avambracci erano profondi, arrivavano fino all’osso, partendo dal polso e giungendo fino al gomito: Arist era andato sul sicuro perché non ci fosse possibilità di salvarsi.
Appoggiato all’albero dello stesso colore delle rocce, il compagno se ne stava seduto con le braccia appoggiate sulle ginocchia, le spalle afflosciate, la linea della bocca socchiusa come se da un momento all’altro dovesse esalare un ultimo, flebile respiro.
Amos s’inchinò per sollevare il corpo. Era stanco di seppellire persone. Era stanco di perdere un amico dopo l’altro.
Quando scese dal promontorio, trovò gli altri intenti a finire la colazione. Una colazione magra, fredda, fatta di cibo in scatola, che gli dava l’apporto nutritivo necessario, ma che era privo di sapore.
Al rumore dei suoi passi, Linder si voltò a guardarlo, corrugando le sopracciglia. — Arist? — Domandò poggiando la tazza con il poco che rimaneva del caffè solubile.
Amos andò a prendere il proprio zaino. — Morto. —
Felua si mise subito in piedi. — Come? —
— Si è aperto le vene delle braccia. — Rispose Amos sistemandosi le cinghie sulle spalle.
Linder fissò il fondo della tazza con una smorfia, le labbra serrate fino a farle sbiancare. — Anche lui alla fine ha ceduto. Proprio lui, che è sempre stato la nostra speranza, ha mollato il colpo. Che possibilità possiamo avere, ora? —
— Dobbiamo averne una. Dobbiamo trovarne una, per coloro che stiamo proteggendo. — Rispose con fermezza Amos, anche se in cuor suo sapeva quanto fosse stata vitale la presenza di Arist. Lui era davvero stato la loro speranza, lui aveva sempre trovato il modo di spingerli avanti, anche quando sembrava che non ci fosse nulla da fare, anche quando tutto sembrava essere soltanto disperazione.
Senza di lui, come avrebbero fatto? Chi avrebbe trovato il coraggio quando loro non ci sarebbero riusciti?
— Che cosa diremo ai bambini? — Felua gli si avvicinò, i lineamenti duri. Ma i suoi occhi tremavano.
Amos si voltò a guardare l’avvallamento dove il gruppo dei giovani aveva trovato riposo per la notte. — La verità. —
Linder sputò per terra. — Non riusciranno a sopportarne il peso. Sai quanto confidavano in lui. Li spezzerai in un secondo. —
Quello era vero. Amos trasse un lungo respiro. — Lasciate che parli io. Andiamo. —
Raccolti i pochi effetti personali che avevano, si diressero al campo dove si trovavano i bambini.
Le pietre crepitarono sotto le loro suole, mentre il flebile vagito di un neonato si alzava negli ultimi residui di bruma, svegliato dalla madre adolescente perché doveva allattarlo. Passarono in mezzo a corpi ancora addormentati, avvolti in coperte che erano poco più che mucchi di stracci.
— Voi svegliateli. — Ordinò Amos ai compagni. — Io vado a chiamare quelli là.— Indicò un gruppetto di bambini vicini a una macchia di cespugli spinosi.
Attraversando le ombre che si facevano sempre più corte, superò la piccola conca usata come latrina, i passi lenti e pesanti per quello che doveva prepararsi a dire. I movimenti del gruppetto cominciarono a farsi più distinti: ora li vedeva ondeggiare, mettersi a sedere e alzarsi in piedi. Una nenia indistinta arrivò alle sue orecchie. Che cosa stavano facendo?
Rallentò il passo, attento a non far rumore e poterli osservare. I loro volti e capelli erano sporchi di polvere, come i loro vestiti. Pantaloni e giacche piene di pezze. Scarpe consumate e bucate. Ma erano soprattutto i loro volti a colpirlo: sguardi spenti, privi d’innocenza. Stavano insieme perché sapevano che in gruppo avevano le maggiori possibilità di sopravvivenza, ma non provavano il piacere della compagnia reciproca. Non c’era gioia nel loro stare vicini, non si abbracciavano, non si toccavano, come se avessero delle spine capaci di pungerli se si avvicinavano troppo.
In cerchio attorno a una rosellina
Un mazzolino di fiori
Cenere, cenere
Andiamo tutti giù
Quella melodia…la conosceva…fin da quando era bambino…ma le parole…quelle erano diverse… quanto erano diverse…come erano diversi i bambini, come li aveva trasformati il Crollo: così piccoli e già conoscevano l’ineluttabilità della vita.
Cenere, cenere…Andiamo tutti giù
Un groppo gli si fermò in gola ripensando ad Arist, all'infanzia trascorsa insieme.
Giro giro tondo, Casca il mondo, Casca la Terra, Tutti giù per terra: anche loro erano soliti fare quel gioco…un gioco semplice, innocente, eppure…così profetico. Il mondo era davvero caduto e tutta l’umanità era andata per terra, senza più riuscire ad alzarsi. Dieci anni, solo dieci anni erano passati dai Giorni della Rovina, i giorni in cui la civiltà era definitivamente scomparsa dopo il Crollo, e loro erano cambiati così tanto, divenendo irriconoscibili perfino a se stessi. Della fiamma vitale che avevano posseduto un tempo, ora rimaneva solamente cenere. E come la cenere era divenuta la loro vita: grigia.
— Bambini. — La sua voce interruppe il gioco, portando su di sé l’attenzione. — Venite, dobbiamo raggiungere gli altri.
Seguendo la piccola fila indiana che lo precedeva, Amos diede uno sguardo alla zona in cerca di pericoli. Ma gli unici esseri viventi che vedeva erano i suoi compagni e il resto dei bambini che ora era in piedi, le palpebre cariche ancora di sonno, gli occhi appannati dal ricordo dei sogni notturni.
— Avete preso tutta la vostra roba? Dobbiamo rimetterci in marcia. — Disse senza preamboli, sapendo quale domanda sarebbe giunta.
— Arist dov’è? — Chiese una ragazza dai capelli biondi tenuti a coda di cavallo. — Dobbiamo aspettarlo prima di ripartire. —
— Arist non verrà con noi. — Posò lo sguardo sugli occhi puntati su di lui. — E’ morto. — In fretta cercò di trovare le parole adatte, se mai potessero essercene. — E’ morto perché aveva subito troppe ferite… è andato avanti finché ha resistito, ma poi non ce l’ha fatta più ed è crollato. Lui non lo dava a vedere, ma gli ultimi scontri l’avevano segnato profondamente e hanno richiesto un prezzo molto alto. —
— E’ morto per difenderci. — Disse atono uno dei ragazzi più grandi.
— E’ morto per colpa nostra. — Aggiunse uno dei bambini più piccoli.
“Quanta durezza. Quanta perdita.” — No. La colpa è solo dei Demoni. Sono loro gli unici responsabili. — “E noi stessi, perché gli abbiamo permesso di esistere, perché li abbiamo fatti nascere e li abbiamo alimentati.”