– Ancora vino!
Lo scranno lanciò un gemito secco, minacciando di spaccarsi sotto la mole del Conte.
Astref socchiuse gli occhi, pronto alla catastrofe.
Tre... Due... Uno...
L’uomò rovinò sulle proprie poderose natiche, sprofondando nella seduta troppo stretta.
Criiik!
Prima o poi il legno avrebbe ceduto, e allora qualcuno avrebbe dovuto pagare. L’artigiano che aveva intagliato quello scranno era morto, lasciando che quella condanna gravasse sulla nuca di un altro innocente.
Astref la sentiva tutta, a ogni pranzo e cena al servizio della casata. Sapeva che era solo questione di tempo e di fortuna―una benedizione, questa, che gli Dei si dimenticavano sempre di concedergli. Non aveva ancora un pelo di barba e già gli scricchiolavano le ginocchia―altro che quello che dicevano i mistici rinchiusi nella torre: gli Dei sanno essere eloquenti, eccome, quando vogliono.
Ma, anche quella volta, il Traghettatore lo aveva graziato.
– Ancora vino!
La tavolata inneggiò sollevando boccali e calici, sorvolando con grazia sulla goffaggine dell’ospite.
Il Conte era stato un gran condottiero, in gioventù, ma la gioventù era passata, assieme all’agilità a cavallo e ai riflessi d’aquila. Quel che rimaneva era un corpo imbandito di seta e di anelli d’oro intrappolati sulle dita gonfie di gotta, nonché l’innata sgradevolezza degli eroi decaduti.
– Ancora vino! – sbraitò il Conte afferrandolo per la manica. Tentò anche di scuoterlo, ma di vino ne aveva bevuto già abbastanza, e il tentativo gli fece annebbiare gli occhi. Lo lasciò andare con ripugnanza, tornando al ghigno sorridente che rivolgeva agli ospiti più ossequiosi e sottomessi―quelli che si teneva più vicino. |