Ciao a tutti. Questo è il mio primo racconto. Non ho esperienza ma ho comunque cercato di fare qualcosa di accettabile. Non so come è venuta fuori questa storia e non saprei neppure come catalogarla. L'unica cosa che so è che me la sono immaginata. Non ho fatto una scaletta, ho c'è stata una progettazione, ho solo scritto quello che mi ero immaginato. Lo posto qua perchè ci sono molti scrittori e aspiranti tali. Sono aperto a qualsiasi critica anche perchè il primo a criticarmi sono io stesso.
Quella notte ero appena uscito da un locale dove avevo rallegrato la mia giornata bevendo con i miei amici. Decisi di dirigermi verso casa a piedi e da solo, per cogliere l’opportunità di godere del silenzio e della pace che non era possibile gustare di giorno. Giunto dinnanzi alla facciata del Duomo, mi fermai un attimo per ammirare la mirabile costruzione che è l’orgoglio della città. Quella notte però, illuminata sinistramente dalla luce della luna e dei lampioni, pareva, ai miei stanchi occhi, molto cupa. Osservandola ebbi la strana sensazione che volesse intimorirmi, che mi volesse spingere a tornare dai miei amici per chiedergli compagnia. Per fermare il turbamento che mi dava quella vista, e che avrebbe potuto rovinarmi la nottata, decisi di proseguire senza ulteriori indugi per la mia strada.
Attraversata la piazza, m’inoltrai in un vicolo. Lì la luce dei lampioni faticava ad arrivare, ma, sapevo che non era un tragitto lungo e che si poteva camminare senza paura di sbattere contro eventuali ostacoli. Non vi era anima viva e dalle finestre non trapelava alcuna luce. Era tutto così silenzioso che potevo sentire distintamente i battiti del mio cuore. Inizialmente non ci feci caso, ma più camminavo e più mi sentivo pervaso da un senso d’estraniazione; alzando gli occhi non scorgevo né la luna né le stelle, eppure, sebbene la luce dei lampioni non potesse arrivare, riuscivo a vedere come se fossi ancora nella piazza. Distinguevo perfettamente i portoni dei palazzi e le finestre, e ogni tanto scorgevo un topo, ma la cosa che mi turbava e mi faceva apprensivo era la vista delle case. Man mano che avanzavo, esse diventavano sempre più sinistre; alcune rosse, altre gialle, altre color cemento, tutte costruite secondo stili diversi ma ognuna ornata di statue di angeli e di diavoli, incassati nei muri come se stessero per uscire da essi. Provavo l’orribile sensazione di essere osservato; ovunque posassi lo sguardo scorgevo solo le statue che parevano scrutarmi l’anima con i loro freddi occhi. Era un paesaggio inquietante e mi sentivo profondamente turbato. Non facevo altro che girare in tondo alla ricerca disperata di un aiuto, il mondo vorticava intorno a me, la testa mi faceva male e gocce di sudore scivolavano lentamente sul mio viso e sul collo; al terrore, col tempo, si aggiunse anche l’impressione che quelle statue stessero ridendo di me. Distrutto mentalmente mi accasciai a terra, il freddo contatto con la strada mi provocò un momentaneo piacere,. Quel posto era così strano che pensai non dovesse essere vero, non poteva esserlo del resto, doveva essere l’alcol ad alterare i miei sensi e quindi era tutto frutto della mia immaginazione. D’improvviso una violenta folata di vento m’investì, raggelandomi le ossa; mi strinsi ancora di più nel lungo cappotto e tappai le orecchie per riparale dal rumore. Quando il vento cessò, la temperatura si era abbassata sensibilmente e non riuscivo a vedere nulla a parte me stesso. Rabbrividii, non per il freddo, ma per la sensazione di trovarmi in un incubo. Ero profondamente turbato e cominciavo ad avere paura: sapevo di non poter resistere ancora a lungo in quella situazione e decisi di tornare indietro. Ma mentre cercavo di farmi coraggio, sentì alle mie spalle un rumore. Mi voltai nella speranza di incontrare qualcuno, ma ciò che vidi fu solo una palla rossa che rimbalzava verso di me. Era una normale palla per bambini, ma in un momento simile era a dir poco spaventosa. E’ strano dire che provai paura di una palla, ma vedendola mi sentii come divenuto protagonista di un racconto dell’orrore.
Smesso di rimbalzare, la palla rotolò fino a sbattere contro il mio mocassino. Mi abbassai per prenderla, e quando rialzai gli occhi vidi davanti a me una bambina. Poteva avere dieci anni ed un sottile velo luminescente avvolgeva il suo esile corpo. Il suo viso era dolce e pallido, i capelli lunghi di un biondo tenue e gli occhi di un azzurro profondo; il completino rosa contribuiva a renderla ancora più graziosa di quanto non fosse.
Rimase ferma, con le mani dietro la schiena, osservandomi incuriosita per alcuni istanti, mentre da parte mia mi sforzavo di capire cosa ci facesse una bambina, da sola per giunta, in un posto simile.
<<Come ti chiami, piccola?>> Chiesi cercando di essere il più rassicurante possibile.
Lei mi prese la palla dalle mani senza rispondermi poi, inclinando leggermente la testa a sinistra, come per osservarmi meglio, sorrise e disse: <<Ci vediamo dopo, signore.>> Quindi se ne andò correndo.
Senza pensarci la rincorsi, ma nonostante fossi più veloce di lei, non riuscivo a raggiungerla, anzi la distanza fra noi non variava, come se una forza invisibile mi impedisse di avvicinarmi.
Non so bene per quanto corsi, ma benché le gambe iniziassero a farmi male, non smisi. La bambina era sempre visibile davanti a me, e ogni tanto si voltava, chiaramente per accertarsi della mia presenza e con lo sguardo sembrava sfidarmi a prenderla, ma improvvisamente scomparve. Continuai a correre sperando di ritrovarla, anche perché disperavo di riuscire a tornare indietro da solo. Dopo un po’scorsi davanti a me un edificio: era un pub; l’insegna era illeggibile, ma la cosa non m’ interessava. Passato il fiatone, diedi una sistemata al vestito e asciugai il sudore col fazzoletto, quindi entrai. Il locale era molto vecchio, illuminato da numerose candele e con tanti bei quadri alle pareti e il suo arredamento in stile settecentesco, ma molto probabilmente era stato il proprietario a volergli dare quest’aria, pensai; l’aria calda era pervasa dal fumo.
Guardandomi intorno rimasi esterrefatto. Ad un tavolo c’erano dei pirati, ognuno con la barba di un diverso colore, che ridevano rumorosamente e trangugiavano interi boccali di birra in un sorso solo, ad un altro sedevano un cavaliere medioevale con tanto di armatura, un nativo americano, un uomo molto somigliante a George Washington e un fachiro sospeso a mezz’aria, ad un terzo cani di varie razze giocavano a poker con Alice e Cappuccetto Rosso. Questi erano i clienti di quel locale, sebbene possa sembrare impossibile. E a dire la verità io stesso sul momento non credetti a ciò che vedevo e mi pizzicai più volte il braccio. Solo il proprietario era normale, o almeno pensai fosse tale; era così indaffarato fra il servire i clienti e il preparare ciò che gli veniva richiesto che quando mi rivolse la parola non si fermò neppure, ma ero così sorpreso che lasciai cadere quel gesto di maleducazione.
<<Non dovrebbe stare fermo all’uscio con la bocca aperta.>> mi disse.
Ci misi un po’ a capire la domanda, poi vidi il mio riflesso in una bottiglia di Brandy. Avevo gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Sembravo proprio uno sciocco, ma era comprensibile, ritenni, visto ciò che mi stava capitando.
<<Non resti lì impalato!>> il tono stavolta era più brusco; evidentemente non gli piaceva che estranei gli occupassero il locale senza neppure ordinare.
<<Si sieda al “tavolo delle cose”, se non ha niente da fare.>>
“Il tavolo delle cose”? Mi chiesi cosa volesse dire con quella bizzarra espressione, poi scorsi un piccolo tavolo in fondo al locale. Le sedie, molto alte, erano occupate da una scatoletta di latta, una bottiglia di bordeaux, un boccale di birra e una fiaschetta di whisky. Non sapendo cosa fare e conscio di essere sull’orlo di uno svenimento per le troppe emozioni, decisi di andare a quel tavolo.
<<Ehi! Uno nuovo!>> disse la scatoletta.
<<Non era mai successo! Bisogna festeggiare.>> aggiunse il boccale, e chiese altra birra.
<<Siediti figliolo. Non restare lì in piedi.>> la bottiglia fu la più educata.
Presi una sedia libera da un tavolo vicino e mi ci accomodai. La fiaschetta sembrò accorgersi di me solo allora. Dopo essersi voltata e avermi osservato per bene, disse: <<Che vuoi?>> in tono brusco come se gli desse fastidio la mia presenza.
Cosa dovrei rispondere- pensai- quando non lo so nemmeno io? Volevo solo andare a casa, e invece mi trovo qui a parlare con questi…queste cose... Mi stava venendo da piangere; avevo raggiunto il limite.
<<Non ti angustiare figliolo. Dicci cosa ti turba.>>
Detto questo la bottiglia mi passò la sigaretta, che teneva in una fessura che le si apriva nel fusto a mò di bocca, senza preoccuparsi minimamente delle implicazioni igieniche del gesto. Mi accorsi in quel momento che tutti quegli oggetti oltre a saper parlare stavano fumando delle sigarette.
<<Chi vi ha dato le sigarette?>> chiesi.
In realtà volevo sapere come facessero a parlare, ma non volevo sembrare indiscreto e vendendo il posacenere, fortunatamente senza vita, pieno pensai che qualcuno doveva pur avergliele date.
<<Il pacchetto di sigarette al tavolo dei cani. Chi sennò?>> mi rispose la fiaschetta.
Mi voltai verso il tavolo e vidi il pacchetto che parlava con Cappuccetto Rosso; egli (o esso?) mi vide a sua volta e disse: <<Salve!>>
Lo salutai con la mano, poi decisi che, se proprio dovevo stare in quel posto tanto valeva chiedere informazioni sulla bambina, che al momento mi sembrava la più normale di tutti.
<<Per caso, sapreste dirmi dove posso trovare una bambina con i capelli biondi?>>.
<<La piccola Marta?>> chiese il boccale.
<<Se cerchi lei, si trova al piano di sopra. Prima stanza a sinistra.>> disse la fiaschetta.
<<E’ lei che ci ha creati. A parte te siamo tutti frutto della sua fantasia.>> la scatoletta.
<<Se vuoi andartene devi chiedere a lei>> concluse la bottiglia.
Si intromise il proprietario ed insieme si misero a discorrere su quanto fosse dolce e simpatica la bambina. Ad un’altro tavolo, nel frattempo, Alice stava litigando con un pitbull e ad un terzo, un pirata giocava a braccio di ferro con l’indiano, mentre gli altri clienti bevevano, urlavano o si picchiavano. Mi misi le mani nei capelli. Non ne potevo più di quel posto, così senza salutare salii le scale, lasciandomi alle spalle quell’inferno, e mi diressi alla stanza della bambina.
Bussai alla porta, che si aprì da sola. Dentro, sedute per terra, erano Marta e tre bambole, intente a prendere il tè. Vedendomi, la bambina si scusò con le sue “amiche” e chiese loro di andarsene. Uscendo, mi guardarono con aria torva e una mi diede un calcio.
<<Addio, Marta!>> dissero in coro, prima di uscire, con la loro vocina.
Addio? Non voglio mica portargliela… meglio lasciar stare.
<<Ciao Marta. Come stai?>> chiesi educatamente io.
Lei stava sistemando i giocattoli e solo dopo aver finito mi rispose.
<<Sto bene, grazie. Ce ne ha messo di tempo, signore.>>
<<Signore sa di vecchio. – ribattei - Dammi del tu e chiamami Nicola. Ci stai?>>
Non rispose subito. Rimase assorta a pensarci, poi fece cenno di si con la testa. A quel punto mi avvicinai e sedetti accanto a lei.
<<Ascoltami Marta. Io non voglio restare qui. Non voglio più rimanere in questo sogno e credo che solo tu possa aiutarmi.>>
Lei mi fissò come se avessi detto qualcosa di incomprensibile.
<<Perché dici che questo è un sogno? Io qui vedo, sento, parlo, dormo e mangio. Perché dovrebbe essere un sogno? Non ti capisco.>>
Sul momento non seppi cosa rispondere. Mi aveva colto impreparato e del resto non potevo che darle ragione; se non fosse stato un posto fin troppo estraneo al senso comune e inquietante non ci sarebbero state differenze con quella che comunemente consideravo realtà.
<< Beh…forse sogno non è la parola giusta ma tutto ciò non è normale. Io voglio tornare nel mio mondo, nel mondo normale.>>
<<Cos’è normale? Solo perché siamo abituati a qualcosa, ciò non vuol dire che questa sia giusta. Il tuo mondo potrebbe benissimo essere un sogno e questa essere la vera realtà. Mio padre una volta mi ha detto che in un mondo di pazzi, è quello sano a finire in manicomio.>>
Ancora una volta rimasi spiazzato. Poi mi ricordai di ciò che aveva detto la scatoletta. Era tutto un sogno. Anche se mi trovavo in un mondo molto simile alla realtà, era tutto frutto della fantasia di quella bambina.
<<Me l’ha detto la scatoletta, Marta. Mi ha detto che questo è un tuo sogno, che tutto è frutto della tua mente. Anche se credi che sia la realtà, non è altro che una tua invenzione.>>
Feci una pausa per verificare l’effetto delle mie parole su di lei.
<<Cerca di ricordare. Pensa ai tuoi genitori, agli amici, a prima di trovarti in questo posto.>>
Si mise le mani nei capelli. Forse erano state le mie parole a turbarla, o forse lo sforzo di ricordare era troppo grande per lei. Si mise a piangere, tenendo gli occhi chiusi e tremando; la presi in braccio
per cercare di calmarla, ma sembrava tutto inutile. D’un tratto si mise ad urlare. Tutto scomparve.
Ci trovammo avvolti nell’oscurità; solo noi eravamo visibili. Finalmente smise di piangere e si calmò.
<<Il fuoco, il fuoco...>>. Continuò a ripeterlo come se la ossessionasse.
C’era effettivamente odore di bruciato e faceva sempre più caldo. Improvvisamente davanti a noi comparve una sottile striscia luminosa. Posai delicatamente la bambina e mi avvicinai alla luce, protendendo le braccia in avanti; toccai qualcosa, feci pressione e vidi il fuoco. Mi resi conto di essere dentro un armadio con la bambina, mentre al di fuori c’era un incendio. In quel momento non capii se fosse ancora un sogno oppure fossimo tornati nel mondo reale, e i miei sensi non erano affidabili, però sentivo il caldo e il fumo mi stava lentamente soffocando.
<<Marta, vieni! Qui brucia tutto, dobbiamo andarcene!>> ogni parola usciva a fatica dalla mia gola.
<<E’ un sogno! E’ solo un sogno!>>
Si era rannicchiata in fondo all’armadio tremando come una foglia. Disperato la presi per le spalle e la scossi, costringendola ad aprire gli occhi e vedere la situazione in cui ci trovavamo.
<<Ascoltami! Non so se questo è un sogno ma si fa fatica a respirare e il calore è in sopportabile. Forse è un altro frutto della tua fantasia, ma non voglio sapere cosa si prova a morire in un sogno.>>
Pensavo solo a salvare le nostre vite; non m’importava minimamente di sembrare un bifolco nei modi e nelle maniere: avevo mandato all’aria l’etichetta e pensavo solo a sopravvivere. Non sapevo come comportarmi in un simile frangente, per cui feci quello che mi sembrava più giusto, cercando di non lasciarmi prendere dal panico. Mi tolsi il cappotto, la presi in braccio e le diedi il mio fazzoletto con cui coprirsi la faccia per non respirare troppo fumo.
<<Ascoltami Marta! Adesso ti porto fuori da qui, ma sarà molto difficile…>> facevo fatica persino a respirare a la vista incominciava ad annebbiarmisi.<<Stringiti forte a me e chiudi gli occhi. Ce la caveremo piccola… ce la caveremo.>>
Le ultime parole le rivolsi soprattutto a me stesso. Eravamo al primo piano e dinnanzi a me vedevo l’inferno. Chiusi gli occhi e deglutii, poi presi coraggio e uscii dalla camera. Cercavo di camminare solo dove ancora il fuoco non aveva attecchito; fortunatamente sembrava che l’incendio fosse scoppiato da poco, quindi il pavimento avrebbe retto un altro po’, ma non sapevo se lo avrebbe fatto abbastanza a lungo. La scala, nostra unica via di fuga, era impraticabile e benché facessi avanti e indietro per il piano cercando un modo per fuggire, il fuoco non mi lasciava scampo. All’improvviso mi venne un’idea. Se fossi riuscito a gettare sulla strada il materasso della bambina, forse ce la saremmo cavata. Non ebbi tempo di valutare la cosa. Tornai dentro la camera alla ricerca del materasso, ma era avvolto dalle fiamme, così posai la bambina, mi tolsi la camicia e cercai di spegnerne il più possibile; quindi lo presi e lo buttai fuori dalla finestra, il cui vetro era esploso per il calore.
<<Adesso saltiamo, Marta. Stringiti forte a me!>>
La sentii ansimare. Ormai anch’io facevo fatica a ragionare, le gambe non mi reggevano e non vedevo quasi più. Mi sporsi dalla finestra, la strinsi forte e saltai. L’atterraggio, nonostante il materasso, fu brusco ma ci salvammo. Rimanemmo seduti per un pò, poi lei allentò la presa e mi guardò. Aveva il viso ricoperto di cenere, così cercai di pulirla come potevo; lei fece lo stesso. Ci fissammo increduli per un istante quindi scoppiammo a ridere, le lacrime di gioia che ci rigavano il viso.
Solo dopo alcuni minuti ci accorgemmo di non essere soli. Molta gente si era riunita e ci fissava; tra di loro si fece avanti un uomo, anche lui ricoperto di cenere, in cui riconobbi il padrone del pub. Prese Marta in braccio e l’abbracciò. La bambina aveva ritrovato il padre ed era uscita dal sogno: disse al padre che spaventata dal fuoco si era nascosta dentro l’armadio; evidentemente lì era svenuta. Quello sembrò non ascoltarla neppure, la guardava con le lacrime agli occhi e la baciava sulle guance, felice per non avere perso la figlia. Rimasi in piedi ad osservarli, contento. Ero felice di aver salvato le nostre vite e di essere tornato nel mio mondo, o almeno era quello che speravo, perché ero ancora alquanto confuso su quello che era successo. Marta si fece mettere a terra dal padre e venne da me, mi fece abbassare e, quando lo feci, mi ringraziò e mi diede un bacio sulla guancia.
Il quel preciso istante mi ritrovai nella mia stanza. Ero disteso sul letto come se per tutto il tempo avessi sognato e avessi aperto gli occhi in quel momento. Per un attimo pensai che si fosse trattato solo di un sogno strano e grottesco, ma mi accorsi di essere vestito. Indossavo gli stessi vestiti del sogno, in alcuni punti bruciacchiati, sentivo la puzza del fumo e il calore del bacio sulla guancia.
Come può essere? Riflettei incredulo.
Che fosse stato tutto reale? Che dopo aver salvato Marta, fossi svenuto esausto e qualcuno di mia conoscenza mi avesse riportato a casa? Pensai fosse la cosa più ovvia, e lo chiesi a tutti quelli che conoscevo, ma ognuno disse che non ne sapeva nulla prima di chiedermi se stavo bene.
Del pub e di Marta non seppi più nulla per sette anni, finché non la incontrai per caso durante un mio viaggio a Venezia. Discorremmo a lungo su quello che era successo e ancor oggi restiamo in contatto tramite le lettere che ci inviamo quasi ogni settimana.
Grazie a quell’incontro capii che non era stato del tutto un sogno ma neanche la realtà.
Tutto ciò che avevo visto era frutto della sua fantasia; gli strambi clienti del pub erano presenti nelle favole, nei racconti e nei quadri che più le piacevano.
Sebbene molti anni siano passati e benché innumerevoli volte io vi abbia ragionato sopra, ancora oggi non trovo risposta.
Che sia stato un sogno oppure la mera realtà, questo non mi è dato saperlo, cosicché il mio animo non trova pace e, ogni notte, inevitabilmente mi sento pervadere da una profonda inquietudine. Quell’esperienza, che il fato volle capitasse proprio a me, rappresenta la mia più grande frustrazione ed al tempo stesso uno dei momenti più emozionanti ed indimenticabili della mia vita. Se la considerassi semplicemente un’avventura, a dir poco grottesca, potrei certamente godere di una vita più serena, ma la sola cosa a cui veramente anelo dal profondo del cuore, verso cui tendo le braccia nel vano tentativo di un raggiungerla, è la verità. Ammettere che sia stato un sogno darebbe risposta solo ad una parte delle domande che mi tormentano, mentre ammettere che fosse realtà mi consentirebbe di rispondere alle altre, ma, in ambedue i casi,i quesiti insoluti mi tormenterebbero ancor più del dovuto. Perciò non trovo pace. Non vi riuscirei neppure ammettendo che quella strana vicenda fosse al contempo sia sogno che realtà, poiché ciò mi metterebbe davanti a quesiti ben più astiosi.
L’anno scorso, in una lettera, Marta mi ha consigliato la risposta:
<<Caro Nicola. Forse quello che accadde fu un sogno, forse la realtà oppure tutte e due le cose, ma noi non lo potremo mai sapere; se anche trovassimo qualcuno disposto a crederci, non potrebbe di certo fare molto più di quello che possiamo fare noi. L’unica cosa che so per certo è che tu mi hai salvata e che per quanto strana, è stata un’avventura straordinaria. So che anche tu credi che sia stato incredibile quello che ci accadde, perciò non ti preoccupare. Al mondo spesso accadono cose che non capiremo mai completamente, e allora non ci resta che accettarle e averne un buon ricordo. Quando ti troverai a ripensare a quella notte, pensa ad un’avventura e non ad un rompicapo.>>
In cuor mio sapevo che aveva ragione e lo penso tuttora ma ahimè, la natura umana è strana. Noi uomini non potremo mai accettare ciò che non capiamo, dobbiamo sempre analizzare e carpire la verità anche quando ci sembra che non ci sia.
Vorrei tanto riuscire a seguire il suo consiglio, ma sono un uomo. E’ la mia natura. |